I giorni senza te passavano lenti. L’umore variabile una costante. Come la voglia di sentirti, di ascoltare la tua voce, strapparti un sorriso. Anche solo per telefono. Come stavi trascorrendo le tue ore? E in quante di queste c’ero anch’io. Anche solo per un attimo. Un istante. Un rapido pensiero da scacciar via in fretta. Un fugace ricordo delle giornate insieme. Uno sguardo al telefono per ritrovare le mie parole. Un tramonto che riporti alla mente quelli visti in riva al mare, con il rumore delle onde a scandire i nostri baci. Eri distante, ma incredibilmente presente in ogni momento della mia giornata. C’eri, quando parlavo di te ai miei amici. Quando confidavo l’ansia, mista a felicità (“Non ci credevo più. È riuscita a sorprendermi anche stavolta. Ora, però, ci siamo separati di nuovo e non so davvero come andrà al suo ritorno”: era diventato quasi un mantra da recitare a memoria). Quando mi sforzavo di tenere i piedi ben piantati in terra. Quando, con attenzione estrema proteggevo il nostro rapporto appena nato, dall’eccessiva indiscrezione. Quando mi avvicinavo alle tue amiche. Quando provavo a conoscerle e parlar con loro. Per conoscere te. Per trovare approvazione e conforto. Per riuscire, gradualmente, a diventare parte del tuo mondo. Mi sforzavo di entrarci in punta di piedi, ma avevo già sconvolto l’ordine delle cose. Mi mancavi, ma non volevo sbagliare. Non dovevo sbagliare. Essere troppo presente, asfissiante. Risultare ridicolo. Pressarti e condizionare il tuo umore. I tuoi atteggiamenti. Avessi assecondato la mia natura, avrei preso il primo treno e t’avrei raggiunta. Ovunque. Ma poi, una volta lì, cosa sarebbe successo. In quale maniera avrei giustificato la fuga. E se avessi ottenuto l’effetto opposto. Meglio di no. Meglio impegnare il tempo altrimenti e provare a restare sereno. In quei giorni non facevo altro che scrivere. E scrivere tanto. Ho perso il conto delle notti trascorse a dividermi tra pensieri, ricordi e ansie da ritorno. Quasi un’ossessione. Una bella ossessione. Eri il centro e la periferia dei miei pensieri. E continuavo a scriverti. Lettere, poesie, messaggi, dediche su cd realizzati ad hoc. Prima o poi, avresti letto e ascoltato tutto. Magari non in una sola volta. Intanto mi aiutavano a condividere l’universo che continuava a girare vorticosamente tra i miei neuroni. Una notte, in particolare, mi alzai quasi in preda a un raptus. Il letto era diventato tutt’un tratto il luogo più scomodo dove riposare. E di getto lasciai queste righe ad incorniciare le ultime ore di buio notturno:
con l’ansia di un bambino
che attende una sorpresa.
Ma come sarà…
questo ritorno?
Venti giorni saranno trascorsi
senza lasciar traccia?
Avrai avuto bisogno di me?
Così come ne ho io…
Ho paura del domani
e quante volte,
quella sera
avrei voluto dire
“Domani non venisse mai..”
[Continua. Forse!]
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